Friday, June 03, 2005

THE DARK MIRROR OF POETRY

Came across my own virtual "ghost" online the other day - an alter-ego spectre from my pre-Iraq-war days as a slight but acrobatic Italian poetess/"literatina", happily cavorting amongst shoals of like-minded mini-literati through the minor cloaca of Rome's literary catacombs...

I'm "republishing" it here in full just in case the site I found it on gets taken down:

LO SPECCHIO DI BORGES

"Se lo spirito non si trasforma in immagine, verrà annientato insieme al mondo" dichiarò perentoriamente il predicatore gnostico Simone Mago, il quale - secondo le Omelie di Clemente - fu discepolo prediletto e successore di San Giovanni Battista.
L'ortodossia nascente mise presto a tacere il leggendario "padre di tutti gli eretici", ma il suo discorso interrotto, ripreso in modo sotterraneo da innumerevoli poeti attraverso i secoli, riecheggia con sconcertante immediatezza fino all'epoca attuale. Come in queste riflessioni di Octavio Paz sulla natura e le proprietà dell'immagine poetica: "L'immagine si apre davanti al lettore e gli rivela il suo abisso traslucido. Il lettore si protende e vi si abbandona. E nel cadere o nell'ascendere, nell'attraversare le grandi sale dell'immagine e nell'abbandonarsi al fluire dell'opera poetica si separa da sé per penetrare in un 'altro se stesso' sino ad allora sconosciuto o ignorato. Il lettore, come il poeta, si trasforma in immagine: qualcosa che si proietta e si libera da sé e va all'incontro con l'innominabile."

Ed è solo tramite lo specchio ustorio dell'immagine che possiamo intravvedere il volto profondo della nostra stessa alterazione - il "volto originario" di ogni autentica gnosi, "immortale e povero" nella sua essenza quanto la poesia stessa. "Qual era il tuo volto prima di nascere?" recita uno dei più celebri koan usati - come sussidi didattici atti a scardinare le certezze della quotidianità razionalizzante - dalla scuola Rinzai del buddismo Zen. Se persino qui e ora, per sventatezza post-post-modernista o altro,qualcuno volesse ancora azzardare una risposta (da ricercarsi per vie prettamente intuitive, ovviamente, poiché lo Zen privilegia l'intuito, e a tal fine fa ricorso sistematico all'allusività della parola poetica), non potrebbe trovare migliore ausilio, nell'ambito della tradizione occidentale, di questa splendida poesia di Jorge Luis Borges:

ARTE POETICA

Guardare il fiume fatto di tempo e di acqua
E ricordare che il tempo è un altro fiume.
Sapere che noi ci perdiamo come il fiume
E che i volti passano come l'acqua.

Sentire che la veglia è un altro sogno
Che sogna di non sognare e che la morte
Che la nostra carne teme è questa morte
Di ogni notte, che si chiama sogno.

Vedere nel giorno e nell'anno un simbolo
Dei giorni dell'uomo e dei suoi anni.
Convertire l'oltraggio degli anni
In una musica, una voce e un simbolo.

Vedere nella morte il sogno, nel tramonto
Un triste oro, tale è la poesia
Che è immortale e povera. La poesia
Torna come l'alba e il tramonto.

Talora nel crepuscolo un volto
Ci guarda dal fondo di uno specchio:
L'arte deve essere come questo specchio
Che ci rivela il nostro proprio volto.

Narrano che Ulisse, sazio di prodigi,
Pianse d'amore scorgendo la sua Itaca
Verde e umile. L'arte è questa Itaca
Di verde eternità, non di prodigi.

Ed è pure come il fiume senza fine
Che scorre e rimane, cristallo di uno stesso
Eraclito incostante, che è lo stesso
Ed è altro, come il fiume senza fine.


(trad. l.s.)

Nella sua ciclicità atemporale, la potente visione di Borges concilia la grandezza con la più nuda semplicità, l'universalità con il pathos fugace del particolare. E in controcanto, annullando ogni lontananza temporale e geografica, gli risponde questa gatha del monaco cinese Xuedou Zhongxian (980-1052 d.C.), trattatello di "ars poetica" anch'essa (le cifre elencate nel primo verso richiamano la natura metrico-musicale della forma gatha - "canzone" in sanscrito):

Uno, sette, tre, cinque -
la verità che cerchi non può essere trovata.
Mentre la notte avanza, la luna splendente
illumina tutto l'oceano,
i gioielli del drago si rispecchiano in ogni onda.
Cercate la luna? - è qui
in quest'onda, nella successiva.


Sembra quasi superfluo, a questo punto, citare la celeberrima "Elle est retrouvée!/ - Quoi? - l'Eternité./C'est la mer/melée au soleil" di Rimbaud, salvo per far notare lo sconcertante parallelismo fra l'"expression bouffonne et egarée au possible" delle illuminazioni del sommo nume dell'avanguardismo europeo e quella non certo meno "buffonesca e smarrita" del monaco tibetano Drukpa Kunley (1455-1570), lo svagato "danzatore sull'onda inesorabile dell'illusione" che s'inchinava, errabondo e gaudente, "davanti ai vagabondi che respingono la loro casa,/davanti al culo delle puttane".

Vicino Orsini, il nobile mecenate che insieme a Pirro Ligorio progettò le mirabili e spaventose figure del parco di Bomarzo, usava fare il seguente augurio alle "dame" e ai "paladini" invitati - purché "di buona ciera" - a visitare la sua creazione: "Che ognuno vi incontri ciò che più gli sta a cuore, e che tutti vi si smarriscano". Perché, potremmo aggiungere, chi non è capace di smarrirsi - confondendosi fino a far svanire dal proprio volto la marcatura dei suoi connotati fittizi - non può sperare di incontrare né ritrovare alcunché...

Ma oggi il linguaggio di quel complesso sillabario, insieme allegorico e anagogico, che si ostenta nelle rocce di Bomarzo come in mille altri luoghi d'arte di questa nostra bistrattata peninsula, pare diventato lettera morta, mera accozzaglia di geroglifi, bizzarra ed incomprensibile quanto gli emblemi di una civiltà scomparsa. E davanti all'inesorabilità di questo ammutolimento, di questa immane perdita di senso, in un'epoca dedita al culto multimediatico di una immediatezza sempre più banalizzata e triviale, s'inchinano persino i poeti...

Di fronte alla durezza dell'essere, la setta eretica dei Catari diede il nome di "consolazione" al loro sacramento più alto; e di fronte a una simile perdita, per chi all'inevitabile poco e male si rassegna, non rimane che invocare ancora una volta l'amaro unguento di un altissimo "consolatore", Jorge Luis Borges:

ELEGIA D'UN PARCO

Si perse il labirinto. Si persero
tutti gli eucalipti ordinati,
i padiglioni dell'estate e la veglia
dell'incessante specchio reiterante
ogni fattezza d'ogni volto umano,
ogni fugacità. L'orologio
fermo, il caprifoglio intrecciato,
la pergola, le frivole statue,
l'altro lato della sera, il gorgheggio,
le chiavi e le porte e i cortili,
il belvedere e l'ozio della fonte
son cose del passato. Del passato?
Se non ci fu principio non ci sarà termine,
se ci aspetta un'infinita somma
di bianchi giorni e nere notti,
già siamo il passato che saremo,
siamo il tempo, il fiume indivisibile.
Siamo Uxmal, Cartagine e la scancellata
muraglia del romano e il perduto
parco che commemorano questi versi.

(trad. E. Zolla)

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I still think this was the best thing I ever wrote - not surprisingly, as it consists almost entirely of splendid quotations from my elders and betters.

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